Roma, 7 feb – Prima che il prossimo 25 aprile si dia fiato alle fanfare e si aprano le danze per festeggiare il 70° anniversario della nostra sconfitta militare nella seconda guerra mondiale, c’è purtroppo un’altra ricorrenza che, c’è da scommetterci, passerà senz’altro sotto silenzio. Si tratta del cosiddetto “eccidio di Porzûs”. E si farà finta di non ricordarsene proprio perché questo fatto, pressoché misconosciuto al grande pubblico (nonostante l’omonimo film del 1997), rappresenta il volto oscuro o, molto più probabilmente, il “vero” volto della cosiddetta “liberazione” e della sedicente “resistenza”.
Ma che cosa è successo di preciso nella piccola località friulana di Topli Uork, poi nota come Porzûs, tra il 7 e il 18 febbraio del 1945? Ebbene, un centinaio di partigiani gappisti (cioè comunisti) massacrarono 17 partigiani appartenenti alla brigata Osoppo, i cosiddetti “partigiani bianchi”. Al comando degli assassini si trovava Mario Toffanin detto “Giacca”, mentre a capo degli assassinati c’era “Bolla”, al secolo Francesco De Gregori, zio dell’omonimo e noto cantautore. Sempre tra gli osovani era presente, inoltre, Guido Pasolini, fratello del famoso regista Pier Paolo. Si trattò di un vero e proprio massacro, tanto efferato da non risparmiare neanche la donna del gruppo, Elda Turchetti.
Questo è tutto quello che c’è di certo su quei terribili eventi, poiché il Pci e gli altri interessati tenteranno in tutti i modi di nascondere o distorcere a proprio vantaggio l’accaduto. In principio ad esempio – secondo consolidata prassi antifascista – si diede la colpa ai fascisti, proprio come si fece per l’assassinio del filosofo Giovanni Gentile. In un secondo momento, invece, Toffanin e sodali scrissero una relazione ufficiale in cui si giustificava la strage come atto di guerra voluto e ordinato dal Pci, in quanto – a loro dire – gli osovani sarebbero stati collaboratori dei tedeschi e dei fascisti. Senza contare il fatto che il Toffanin cambierà più volte versione, spesso in maniera radicale. E seguitò a cambiar versione anche dopo essere fuggito in Jugoslavia a causa della sopravvenuta condanna per “omicidio aggravato continuato e saccheggio”, pur continuando – ovviamente – a percepire lo stipendio elargito dallo Stato italiano che paradossalmente lo aveva condannato.
Nel dopoguerra i giudici, infatti, per la strage di Porzûs condanneranno in sede processuale 41 imputati, comminando complessivamente tre ergastoli e circa 700 anni di reclusione. Ma tra latitanze, indulti, condoni e amnistie nessuno dei colpevoli fece un solo giorno di prigione. Si fece in tempo però, già nel 1945, a riconoscere al defunto De Gregori la medaglia d’oro al valor militare alla memoria con la seguente motivazione: “Cadeva vittima della tragica situazione creata dal fascismo ed alimentata dall’oppressore tedesco in quel martoriato lembo d’Italia dove il comune spirito patriottico non sempre riusciva a fondere in un sol blocco le forze della Resistenza”.
A destra: Lapide in ricordo delle vittime della Brigata Osoppo
È vero che quello era il periodo delle medaglie di latta e dei nastrini di cartone, di cui praticamente ogni scalcagnato poteva far sfoggio, tuttavia è interessante notare quella curiosa menzione del “comune spirito patriottico”. È interessante perché è opinione oggi prevalente tra gli storici che le brigate comuniste – le quali pretendevano di richiamarsi al patriota Giuseppe Garibaldi – abbiano ricevuto l’ordine di sterminare la brigata Osoppo direttamente dagli sloveni appartenenti al IX Corpo d’armata titino. Pare infatti che gli osovani avessero realmente avuto un abboccamento con esponenti della Decima Mas con lo scopo di organizzare una resistenza (una “resistenza” vera) alle mire espansionistiche del panslavismo titino. Si sarebbe trattato, cioè, di difendere l’italianità delle terre istriano-dalmate dalla pulizia etnica perpetrata dagli iugoslavi ai danni dei nostri connazionali, infoibati e poi costretti all’esodo.
I partigiani comunisti pertanto, per ordine degli sloveni, avrebbero agito contro gli interessi nazionali. Tanto che l’accusa di alto tradimento, avanzata nel processo del 1954, venne accolta, in quanto “la strage […] fu un atto tendente a porre una parte del territorio italiano sotto la sovranità jugoslava”. Questo, evidentemente, era lo “spirito patriottico” che animava i gappisti. Benché sia stato appurato che la loro azione fosse “diretta al fine del tradimento”, gli imputati vennero tuttavia assolti dall’accusa di tradimento, poiché tale azione non avrebbe determinato “una situazione di pericolo per l’interesse dello Stato al mantenimento della sua integrità territoriale”. Che l’Istria e la Dalmazia fossero state occupate e ripulite etnicamente da Tito e dai suoi infoibatori, a quanto pare, deve essere sfuggito ai probi inquirenti.
A sinistra: Mario Toffanin, detto "Giacca"
Questa, dunque, la cruda realtà, per troppo tempo velata dai toni insopportabilmente agiografici della cosiddetta “gloriosa epopea della Resistenza”, come l’ha definita nel 2012 il presidente della repubblica Giorgio Napolitano proprio in occasione di una storica commemorazione della strage. Del resto tutto ciò non stupisce, visto che si è chiamata “liberazione” un’occupazione militare (quella anglo-americana) e “resistenza” l’avanzata di soverchianti truppe nemiche (sempre anglo-americane), coadiuvata dagli atti terroristici di partigiani come Mario Toffanin. Proprio la figura di “Giacca” è emblematica: comandante di numerose “brigate” (e non quindi semplice gregario), oltre che per la strage di Porzûs fu accusato e condannato per “furto, rapine, estorsioni, omicidi, anche ai danni di una compagna di lotta”. Forse proprio Toffanin rappresenta lo specchio più fedele di un’epopea di cartone che, animata da un fervente “spirito patriottico”, finì col consegnare Roma a Roosevelt e Fiume a Tito. Con buona pace di Garibaldi, di 20 mila connazionali infoibati e di 350 mila istriano-dalmati condannati all’esilio e al pubblico ludibrio.
Fonte: ilprimatonazionale.it
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